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PREFETTI E PREFETTURE
Abolire province o prefetture? Di Roberto Vacca, 6 Aprile 2012
Il Governo riduce il bilancio delle prefetture di mezzo miliardo.
Ridurrà un po’ il deficit. Nessuno dice, però, quanto costino all’anno i
prefetti. Si può risparmiare ben di più. Si è parlato di abolire le
province che hanno funzioni concrete: istruzione, cultura, turismo,
trasporti, viabilità, territorio, protezione dell’ambiente, sviluppo
economico. Se le aboliamo, altri vicarieranno le loro funzioni. Il
risparmio sarà illusorio: consisterà in controllo di qualità e
innalzamento dell’efficienza. di cui c’è sempre bisogno. Indago in rete
sul costo annuo di province e prefetture. [l’Annuario ISTAT non lo
cita].. I numeri non sono univoci: ci sono: spese impegnate, di
competenza, residui. Grosso modo le prefetture costano circa 9 miliardi,
ma fanno cose utili. Le prefetture costano 6 miliardi, ma non hanno
funzioni utili. A parte sprechi lussuosi, i prefetti servono solo a
frenare ed estendere in periferia il potere centrale. Hanno anche
effetti peggiori: 68 anni fa li descrisse duramente Luigi Einaudi. Fu il
più rivoluzionario Presidente che abbia avuto la nostra Repubblica. Non
teneva tanto nemmeno alle province. Scrisse queste parole – in
Svizzera, quando l’Italia era sotto i tedeschi:
Via il prefetto! di Luigi Einaudi, Gazzetta ticinese 17/7/1944, (firmato Junius)
Proporre, in Italia ed in qualche altro paese di Europa, di abolire il
"prefetto" sembra stravaganza degna di manicomio. Istituzione veneranda,
venuta a noi dalla notte dei tempi, il prefetto è quasi sinonimo di
governo e, lui scomparso, sembra non esistere più nulla. Chi comanda e
chi esegue fuor dalla capitale? Come opera l'amministrazione pubblica?
In verità, il prefetto è una lue che fu inoculata nel corpo politico
italiano da Napoleone. Gli antichi governi erano, prima della
rivoluzione francese, assoluti solo di nome, e di fatto vincolati d'ogni
parte, dai senati e dalle camere dei conti o magistrati camerali,
gelosissimi del loro potere di rifiutare la registrazione degli editti
regii, che, se non registrati, non contavano nulla, dai corpi locali
privilegiati, auto-eletti per cooptazione dei membri in carica, dai
patti antichi di infeudazione, di dedizione e di annessione, dalle
consuetudini immemorabili. Gli stati italiani governavano entro i
limiti posti dalle "libertà" locali, territoriali e professionali.
Spesso "le libertà" municipali e regionali erano "privilegi" di ceti, di
nobili, di corporazioni artigiane ed erano dannose all'universale.
Nella furia di strappare i privilegi, la rivoluzione francese distrusse,
continuando l'opera iniziata dai Borboni, le libertà locali; e
Napoleone, dittatore all'interno, amante dell'ordine, sospettoso, come
tutti i tiranni, di ogni forza indipendente, spirituale o temporale,
perfezionò l'opera. I governi restaurati trovarono comodo di non
restaurare, se non di nome, gli antichi corpi limitatori e conservarono
il prefetto napoleonico. L'Italia nuova, preoccupata di rinsaldare le
membra disiecta degli antichi ex-stati in un corpo unico, immaginò che
il federalismo fosse il nemico ed estese il sistema prefettizio anche a
quelle parti d'Italia, come le province ex-austriache, nelle quali la
lue erasi infiltrata con manifestazioni attenuate. Si credette di
instaurare libertà e democrazia e si foggiò lo strumento della
dittatura.
Democrazia e prefetto repugnano profondamente l'una
all'altro. Né in Italia, né in Francia, né in Spagna, né in Prussia si
ebbe mai e non si avrà mai democrazia, finche esisterà il tipo di
governo accentrato, del quale è simbolo il prefetto.
Coloro i
quali parlano di democrazia e di costituente e di volontà popolare e di
autodecisione e non si accorgono del prefetto, non sanno quel che si
dicono. Elezioni, libertà di scelta dei rappresentanti, camere,
parlamenti, costituenti, ministri responsabili sono una lugubre farsa
nei paesi a governo accentrato del tipo napoleonico. Gli uomini di
stato anglo-sassoni, i quali invitano i popoli europei a scegliersi la
forma di governo da essi preferita, trasportano inconsciamente parole e
pensieri propri dei loro paesi a paesi nei quali le medesime parole
hanno un significato del tutto diverso. Forse i soli europei del
continente, i quali sentendo quelle parole le intendono nel loro
significato vero sono, insieme con gli scandinavi, gli svizzeri; e
questi non hanno nulla da imparare, perché quelle parole sentono
profondamente da sette secoli. Essi sanno che la democrazia comincia
dal comune, che è cosa dei cittadini, i quali non solo eleggono i loro
consiglieri e sindaci o presidenti o borgomastri, ma da se, senza
intervento e tutela e comando di gente posta fuori del comune od a
questo sovrapposta, se lo amministrano, se lo mandano in malora o lo
fanno prosperare. L'auto-governo continua nel cantone, il quale è un
vero stato, il quale da sè si fa le sue leggi, se le vota nel suo
parlamento e le applica. Il governo federale, a sua volta, per le cose
di sua competenza, ha un parlamento per deliberare le leggi sue proprie
ed un consiglio federale per applicarle ed amministrarle. E tutti
questi consessi ed i 25 cantoni e mezzi cantoni e la confederazione
hanno così numerosissimi legislatori e centinaia di ministri, grossi e
piccoli, tutti eletti, ognuno dei quali attende alle cose proprie, senza
vedersi mai tra i piedi il prefetto, ossia la longa manus del ministro
o governo più grosso, il quale insegni od ordini il modo di sbrigare le
faccende proprie dei ministri più piccoli. Cosi pure si usa governare
in Inghilterra, con altre formule di parrocchie, borghi, città, contee,
regni e principati; cosi si fa negli Stati Uniti, nelle federazioni
canadese, sudafricana, australiana e nella Nuova Zelanda. Nei paesi
dove la democrazia non è una vana parola, la gente sbriga da se le
proprie faccende locali (che negli Stati Uniti si dicono anche
statali), senza attendere il la od il permesso dal governo centrale.
Cosi si forma una classe politica numerosa, scelta per via di vagli
ripetuti. Non è certo che il vaglio funzioni sempre a perfezione; ma
prima di arrivare ad essere consigliere federale o nazionale in
Svizzera, o di essere senatore o rappresentante nel congresso nord
americano, bisogna essersi fatto conoscere per cariche coperte nei
cantoni o negli stati; ed essersi guadagnato una qualche fama di
esperto ed onesto amministratore. La classe politica non si forma da
sé, ne è creata dal fiat di una elezione generale. Ma si costituisce
lentamente dal basso; per scelta fatta da gente che conosce
personalmente le persone alle quali delega la amministrazione delle
cose locali piccole; e poi via via quelle delle cose nazionali od
inter-statali più grosse. La classe politica non si forma tuttavia se
l'eletto ad amministrare le cose municipali o provinciali o regionali
non è pienamente responsabile per l'opera propria. Se qualcuno ha il
potere di dare a lui ordini o di annullare il suo operato, l'eletto non è
responsabile e non impara ad amministrare. Impara ad ubbidire, ad
intrigare, a raccomandare, a cercare appoggio. Dove non esiste il
governo di se stessi e delle cose proprie, in che consiste la
democrazia?
Finche esisterà in Italia il prefetto, la
deliberazione e l'attuazione non spetteranno al consiglio municipale ed
al sindaco, al consiglio provinciale ed al presidente; ma sempre e
soltanto al governo centrale, a Roma; o, per parlar più concretamente,
al ministro dell'interno. Costui è il vero padrone della vita
amministrativa e politica dell'intero stato. Attraverso i suoi organi
distaccati, le prefetture, il governo centrale approva o non approva i
bilanci comunali e provinciali, ordina l'iscrizione di spese di cui i
cittadini farebbero a meno, cancella altre spese, ritarda
l'approvazione ed intralcia il funzionamento dei corpi locali. Chi
governa localmente di fatto non è né il sindaco né il consiglio
comunale o provinciale; ma il segretario municipale o provinciale. Non a
caso egli è stato oramai attruppato tra i funzionari statali. Parve un
sopruso della dittatura ed era la logica necessaria deduzione del
sistema centralistico. Chi, se non un funzionario statale, può
interpretare ed eseguire le leggi, i regolamenti, le circolari, i
moduli i quali quotidianamente, attraverso le prefetture, arrivano a
fasci da Roma per ordinare il modo di governare ogni più piccola
faccenda locale? Se talun cittadino si informa del modo di sbrigare una
pratica dipendente da una legge nuova, la risposta è: non sono ancora
arrivate le istruzioni, non è ancora compilato il regolamento; lo si
aspetta di giorno in giorno. A nessuno viene in mente del ministero,
l'idea semplice che l'eletto locale ha il diritto e il dovere di
interpretare lui la legge, salvo a rispondere dinnanzi agli elettori
della interpretazione data? Che cosa fu e che cosa tornerà ad essere
l'eletto del popolo in uno stato burocratico accentrato? Non un
legislatore, non un amministratore; ma un tale, il cui merito
principale e di essere bene introdotto nei capoluoghi di provincia
presso prefetti, consiglieri e segretari di prefettura, provveditori
agli studi, intendenti di finanza, ed a Roma, presso i ministri,
sotto-segretari di stato e, meglio e più, perché di fatto più potenti,
presso direttori generali, capi-divisione, segretari, vice-segretari ed
uscieri dei ministeri. Il malvezzo di non muovere la " pratica " senza
una spinta, una raccomandazione non è recente né ha origine dal
fascismo. E' antico ed è proprio del sistema. Come quel ministro
francese, guardando l'orologio, diceva: a quest'ora, nella terza classe
di tutti i licei di Francia, i professori spiegano la tal pagina di
Cicerone; così si può dire di tutti gli ordini di scuole italiane.
Pubbliche o private, elementari o medie od universitarie, tutto dipende
da Roma: ordinamento, orari, tasse, nomine degli insegnanti, degli
impiegati di segreteria, dei portieri e dei bidelli, ammissioni degli
studenti, libri di testo, ordine degli esami, materie insegnate. I
fascisti concessero per scherno l'autonomia alle università; ma era
logico che nel sistema accentrato le università fossero, come subito
ridiventarono, una branca ordinaria dell'amministrazione pubblica; ed
era logico che prima del 1922 i deputati elevassero querele contro
quelle che essi imprudentemente chiamarono le camorre dei professori di
università, i quali erano riusciti, in mezzo secolo di sforzi
perseveranti e di costumi anti-accentratori a poco a poco originati dal
loro spirito di corpo, a togliere ai ministri ogni potere di
scegliere e di trasferire gli insegnanti universitari e quindi ogni
possibilità ai deputati di raccomandare e promuovere intriganti politici
a cattedre. Agli occhi di un deputato uscito dal suffragio
universale ed investito di una frazione della sovranità popolare, ogni
resistenza di corpi autonomi, di enti locali, di sindaci decisi a far
valere la volontà dei loro amministrati appariva camorra, sopruso o
privilegio. La tirannia del centro, la onnipotenza del ministero,
attraverso ai prefetti, si converte nella tirannia degli eletti al
parlamento. Essi sanno di essere i ministri del domani, sanno che chi di
loro diventerà ministro dell'interno, disporrà della leva di comando
del paese; sanno che nessun presidente del consiglio può rinunciare ad
essere ministro dell'interno se non vuol correre il pericolo di vedere
"farsi" le elezioni contro di lui dal collega al quale egli abbia avuto
la dabbenaggine di abbandonare quel ministero, il quale dispone delle
prefetture, delle questure e dei carabinieri; il quale comanda a
centinaia di migliaia di funzionari piccoli e grossi, ed attraverso
concessioni di sussidi, autorizzazioni di spese, favori di ogni specie
adesca e minaccia sindaci, consiglieri, presidenti di opere pie e di
enti morali. A volta a volta servo e tiranno dei funzionari che egli ha
contribuito a far nominare con le sue raccomandazioni e dalla cui
condiscendenza dipende l'esito delle pratiche dei suoi elettori, il
deputato diventa un galoppino, il cui tempo più che dai lavori
parlamentari è assorbito dalle corse per i ministeri e dallo scrivere
lettere di raccomandazione per il sollecito disbrigo delle pratiche dei
suoi elettori.
Perciò il delenda Carthago della democrazia liberale
è: Via il prefetto! Via con tutti i suoi uffici e le sue dipendenze e
le sue ramificazioni! Nulla deve più essere lasciato in piedi di questa
macchina centralizzata; nemmeno lo stambugio del portiere. Se lasciamo
sopravvivere il portiere, presto accanto a lui sorgerà una fungaia di
baracche e di capanne che si trasformeranno nel vecchio aduggiante
palazzo del governo. Il prefetto napoleonico se ne deve andare, con le
radici, il tronco, i rami e le fronde. Per fortuna, di fatto oggi in
Italia l'amministrazione centralizzata è scomparsa. Ha dimostrato di
essere il nulla; uno strumento privo di vita propria, del quale il
primo avventuriero capitato a buon tiro poteva impadronirsi per
manovrarlo a suo piacimento. Non accadrà alcun male, se non
ricostruiremo la macchina oramai guasta e marcia. L'unita del paese non
è data dai prefetti e dai provveditori agli studi e dagli intendenti di
finanza e dai segretari comunali e dalle circolari ed istruzioni ed
autorizzazioni romane. L'unita del paese è fatta dagli italiani. Dagli
italiani, i quali imparino, a proprie spese, commettendo spropositi, a
governarsi da sé. La vera costituente non si ha in una elezione
plebiscitaria, a fin di guerra. Così si creano o si ricostituiscono le
tirannie, siano esse di dittatori o di comitati di partiti. Chi vuole
affidare il paese a qualche altro saltimbanco, lasci sopravvivere la
macchina accentrata e faccia da questa e dai comitati eleggere a
costituente. Chi vuole che gli italiani governino se stessi, faccia
invece subito eleggere i consigli municipali, unico corpo rimasto in
vita, almeno come aspirazione profondamente sentita da tutti i
cittadini; e dia agli eletti il potere di amministrare liberamente; di
far bene e farsi rinnovare il mandato, di far male e farsi lapidare.
Non si tema che i malversatori del denaro pubblico non paghino il fio,
quando non possano scaricare su altri, sulla autorità tutoria, sul
governo la colpa delle proprie malefatte. La classe politica si forma
cosi: col provare e riprovare, attraverso a fallimenti ed a successi.
Sia che si conservi la provincia; sia che invece la si abolisca, perché
ente artificioso, antistorico ed anti-economico e la si costituisca da
parte con il distretto o collegio o vicinanza, unita più piccola,
raggruppata attorno alla cittadina, al grosso borgo di mercato, dove
convengono naturalmente per i loro interessi ed affari gli abitanti dei
comuni dei dintorni, e dall'altra con la grande regione storica:
Piemonte, Liguria, Lombardia, ecc.; sempre, alla pari del comune, il
collegio regione dovranno amministrarsi da se, formarsi i propri
governanti elettivi, liberi di gestire le faccende proprie del comune,
del collegio e della provincia, liberi di scegliere i propri funzionari e
dipendenti, nel modo e con le garanzie che essi medesimi, legislatori
sovrani nel loro campo, vorranno stabilire. Si potrà discutere sui
compiti da attribuire a questo o quell'altro ente sovrano; ed adopero a
bella posta la parola sovranità e non autonomia, ad indicare che non
solo nel campo internazionale, con la creazione di vincoli federativi,
ma anche nel campo nazionale, con la creazione di corpi locali vivi di
vita propria originaria non derivata dall'alto, urge distruggere l'idea
funesta della sovranità assoluta dello stato. Non temasi dalla
distruzione alcun danno per l'unità nazionale. L'accentramento
napoleonico ha fatto le sue prove e queste sono state negative: una
burocrazia pronta a ubbidire a ogni padrone, non radicata nel luogo,
indifferente alle sorti degli amministrati; un ceto politico oggetto di
dispregio, abbassato a cursore di anticamere prefettizie e
ministeriali, prono a votare in favore di qualunque governo, se il voto
poteva giovare ad accaparrare il favore della burocrazia poliziesca e a
premere sulle autorità locali nel giorno delle elezioni generali; una
polizia, non collegata, come dovrebbe, esclusivamente con la
magistratura inquirente e giudicante e con i carabinieri, ma divenuta
strumento di inquisizione politica e di giustizia "economica", ossia
arbitraria. L'arbitrio poliziesco erasi affievolito all'inizio del
secolo; ma lo strumento era pronto; e, come già con Napoleone,
ricominciarono a giungere al dittatore i rapporti quotidiani della
polizia sugli atti e sui propositi di ogni cittadino sospetto; e si
potranno di nuovo comporre, con quei fogli, se non li hanno bruciati
prima, volumi di piccola e di grande storia di interesse appassionante. E
quello strumento, pur guasto, e pronto, se non lo faremo diventare mero
organo della giustizia per la prevenzione dei reati e la scoperta dei
loro autori, a servire nuovi tiranni e nuovi comitati di salute
pubblica. Che cosa ha dato all'unità d'Italia quella armatura dello
stato di polizia, preesistente, ricordiamolo bene, al 1922? Nulla. Nel
momento del pericolo è svanita e sono rimasti i cittadini inermi e soli.
Oggi essi si attruppano in bande di amici, di conoscenti, di
borghigiani; e li chiamano partigiani. È lo stato il quale si rifà
spontaneamente. Lasciamolo riformarsi dal basso, come è sua natura.
Riconosciamo che nessun vincolo dura, nessuna unita e salda, se prima
gli uomini i quali si conoscono ad uno ad uno non hanno costituito il
comune; e di qui, risalendo di grado in grado, sino allo stato. La
distruzione della sovrastruttura napoleonica, che gli italiani non hanno
amato mai, offre l'occasione unica di ricostruire lo stato partendo
dalle unità che tutti conosciamo e amiamo: la famiglia, il comune, la
vicinanza e la regione. Cosi possederemo finalmente uno stato vero e
vivente...
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