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domenica 10 giugno 2012

CATALONIA THE NEXT STATE IN EUROPE #EURO2012 #Eurocup2012

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CATALONIA IS NOT SPAIN #EURO2012

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mercoledì 2 maggio 2012

AGENZIE ISOLE SPARSE VENEXIA: Spigolon Sindaco a Cerea

AGENZIE ISOLE SPARSE VENEXIA: Spigolon Sindaco a Cerea: MATTEO SPIGOLON Candidato SINDACO a Cerea ASPARETTO CHERUBINE ASELOGNA PALESELLA SAN VITO FRESCA' ISOLELLA SANTA TERESA IN VALLE  ' C on...

sabato 28 aprile 2012

ORAZION A SAN MARCO

A' L' Isolan
ALBERT GARDIN
del GOVERNO
ISOLE REPUBBLICA Venexia

Renato De Paoli

RENATO A SPARE'

In sti tempi senza drito e tegnui da desprudenti governi i'è sempre imbriaghi de dirse de ben e sempre dir che i'è braii; e poiché cosita (pur troppo!) i'è i nostri tempi, grande argomento te mando e al me stima intitolando na orazion che del pasà descrivendo e le presenti desgrazie, tute le speranze mete ne l'avegner. M'avì reputa degno de scrivar l'orazion a San Marco, e mi, riconoscente, ve reputo boni de confermarlo con la vostra autorità. No l' é Vostra la colpa ma del vostro potere se pochi e poco boni ve sta intorno; ma l' è sicuro gran esempio de forte animo in Vualtri se destrigandove da le beghe de quei tristi, lasesi li a tanta Orazion a un uoo de mezo saver, ma de alto cor, no mai domà né da' benefici, né da le ingiurie. WSM.

Vicenza; 25 aprile, 2012.



ORAZIONE A San Marco



I



Parché quei che ne le Isole Venexia ten el basto de le robe, me ven dal cor far sta orazion in nome del Popolo de le Isole Venezia, e de metar sora, par quanto pol la oze del nostro Santo MARco i zoeni e par gnete libaro scritor, un poca de riconosenza che ai posteri gh'è faga a San Marco protetor de tute le Isole REPUBBLICA Venexia, mi par quanto el me saver, e de sti tempi de infami e desprudenti e difidente, ma pien del l'alto rispeto, e del fogo Sacro che ven fora da la To Gloria (furor che tuti i santi e le anime grande che gà comunanza con Ti) e infiamà da la Matria / Patria inamorà e dal voto de sacrificarme a la Sacralità de la to Santa verità, volentieri tanto granda impresa me son tolto, sperando de tirarla almanco un poco da la parte bona e giusta, no con la disciplina dei scincapene, né fasendo tanto onor con tanti complimenti, ma libaro parlando al grando assè desora de noantri che moremo. Me par de far onor a Ti disendo solo la sacrosanta verità; e par zercar de catar la fede de le nazion parlarò come omo che de gnente ga paura e gnente spera da la to Divina posizion, girandome a ti con la fiducia de la me onestà e de le To grandi virtù, cosita come le anime dei nosti AVI /E e dei Nostri pari e mare, da Pilimene quando semo scapè qua da Ilio e de quei grandi domandemo aiuto e a Ti e a la suprema mente de Dio Creator. E tuta intiera ven fora neta, ciara, pulita, fresca, sconta, la gran gloria par Ti reputo nel vedar tute le piaghe tute, che par colpa de la sfortuna, par la prepotenza e par la rapacità de la conquista, per l'avarizia e l' ignoranza de' governanti par gran tempo na fato ofese, e ne ofende adeso e con la testa alta e drita ste misere provincie Isole Sparse Venexia e i omeni e le done che fa grande uno , cosita Ti risanandole con la forza de la To man granda assè come l'Oceano Crono, ADRIA E ATICO , le AVE/I dei Sete mari el LAX VENE X K vegna avanti e no vegna più veduo belo assè in To nome.

Grillo contro Maciste – Il Fatto Quotidiano

Grillo contro Maciste – Il Fatto Quotidiano

PREFETTI E PREFETTURE

Abolire province o prefetture? Di Roberto Vacca, 6 Aprile 2012
Il Governo riduce il bilancio delle prefetture di mezzo miliardo. Ridurrà un po’ il deficit. Nessuno dice, però, quanto costino all’anno i prefetti. Si può risparmiare ben di più. Si è parlato di abolire le province che hanno funzioni concrete: istruzione, cultura, turismo, trasporti, viabilità, territorio, protezione dell’ambiente, sviluppo economico. Se le aboliamo, altri vicarieranno le loro funzioni. Il risparmio sarà illusorio: consisterà in controllo di qualità e innalzamento dell’efficienza. di cui c’è sempre bisogno. Indago in rete sul costo annuo di province e prefetture. [l’Annuario ISTAT non lo cita].. I numeri non sono univoci: ci sono: spese impegnate, di competenza, residui. Grosso modo le prefetture costano circa 9 miliardi, ma fanno cose utili. Le prefetture costano 6 miliardi, ma non hanno funzioni utili. A parte sprechi lussuosi, i prefetti servono solo a frenare ed estendere in periferia il potere centrale. Hanno anche effetti peggiori: 68 anni fa li descrisse duramente Luigi Einaudi. Fu il più rivoluzionario Presidente che abbia avuto la nostra Repubblica. Non teneva tanto nemmeno alle province. Scrisse queste parole – in Svizzera, quando l’Italia era sotto i tedeschi:

Via il prefetto! di Luigi Einaudi, Gazzetta ticinese 17/7/1944, (firmato Junius)
Proporre, in Italia ed in qualche altro paese di Europa, di abolire il "prefetto" sembra stravaganza degna di manicomio. Istituzione veneranda, venuta a noi dalla notte dei tempi, il prefetto è quasi sinonimo di governo e, lui scomparso, sembra non esistere più nulla. Chi comanda e chi esegue fuor dalla capitale? Come opera l'amministrazione pubblica? In verità, il prefetto è una lue che fu inoculata nel corpo politico italiano da Napoleone. Gli antichi governi erano, prima della rivoluzione francese, assoluti solo di nome, e di fatto vincolati d'ogni parte, dai senati e dalle camere dei conti o magistrati camerali, gelosissimi del loro potere di rifiutare la registrazione degli editti regii, che, se non registrati, non contavano nulla, dai corpi locali privilegiati, auto-eletti per cooptazione dei membri in carica, dai patti antichi di infeudazione, di dedizione e di annessione, dalle consuetudini immemorabili. Gli stati italiani governavano entro i limiti posti dalle "libertà" locali, territoriali e professionali. Spesso "le libertà" municipali e regionali erano "privilegi" di ceti, di nobili, di corporazioni artigiane ed erano dannose all'universale. Nella furia di strappare i privilegi, la rivoluzione francese distrusse, continuando l'opera iniziata dai Borboni, le libertà locali; e Napoleone, dittatore all'interno, amante dell'ordine, sospettoso, come tutti i tiranni, di ogni forza indipendente, spirituale o temporale, perfezionò l'opera. I governi restaurati trovarono comodo di non restaurare, se non di nome, gli antichi corpi limitatori e conservarono il prefetto napoleonico. L'Italia nuova, preoccupata di rinsaldare le membra disiecta degli antichi ex-stati in un corpo unico, immaginò che il federalismo fosse il nemico ed estese il sistema prefettizio anche a quelle parti d'Italia, come le province ex-austriache, nelle quali la lue erasi infiltrata con manifestazioni attenuate. Si credette di instaurare libertà e democrazia e si foggiò lo strumento della dittatura.
Democrazia e prefetto repugnano profondamente l'una all'altro. Né in Italia, né in Francia, né in Spagna, né in Prussia si ebbe mai e non si avrà mai democrazia, finche esisterà il tipo di governo accentrato, del quale è simbolo il prefetto.
Coloro i quali parlano di democrazia e di costituente e di volontà popolare e di autodecisione e non si accorgono del prefetto, non sanno quel che si dicono. Elezioni, libertà di scelta dei rappresentanti, camere, parlamenti, costituenti, ministri responsabili sono una lugubre farsa nei paesi a governo accentrato del tipo napoleonico. Gli uomini di stato anglo-sassoni, i quali invitano i popoli europei a scegliersi la forma di governo da essi preferita, trasportano inconsciamente parole e pensieri propri dei loro paesi a paesi nei quali le medesime parole hanno un significato del tutto diverso. Forse i soli europei del continente, i quali sentendo quelle parole le intendono nel loro significato vero sono, insieme con gli scandinavi, gli svizzeri; e questi non hanno nulla da imparare, perché quelle parole sentono profondamente da sette secoli. Essi sanno che la democrazia comincia dal comune, che è cosa dei cittadini, i quali non solo eleggono i loro consiglieri e sindaci o presidenti o borgomastri, ma da se, senza intervento e tutela e comando di gente posta fuori del comune od a questo sovrapposta, se lo amministrano, se lo mandano in malora o lo fanno prosperare. L'auto-governo continua nel cantone, il quale è un vero stato, il quale da sè si fa le sue leggi, se le vota nel suo parlamento e le applica. Il governo federale, a sua volta, per le cose di sua competenza, ha un parlamento per deliberare le leggi sue proprie ed un consiglio federale per applicarle ed amministrarle. E tutti questi consessi ed i 25 cantoni e mezzi cantoni e la confederazione hanno così numerosissimi legislatori e centinaia di ministri, grossi e piccoli, tutti eletti, ognuno dei quali attende alle cose proprie, senza vedersi mai tra i piedi il prefetto, ossia la longa manus del ministro o governo più grosso, il quale insegni od ordini il modo di sbrigare le faccende proprie dei ministri più piccoli. Cosi pure si usa governare in Inghilterra, con altre formule di parrocchie, borghi, città, contee, regni e principati; cosi si fa negli Stati Uniti, nelle federazioni canadese, sudafricana, australiana e nella Nuova Zelanda. Nei paesi dove la democrazia non è una vana parola, la gente sbriga da se le proprie faccende locali (che negli Stati Uniti si dicono anche statali), senza attendere il la od il permesso dal governo centrale. Cosi si forma una classe politica numerosa, scelta per via di vagli ripetuti. Non è certo che il vaglio funzioni sempre a perfezione; ma prima di arrivare ad essere consigliere federale o nazionale in Svizzera, o di essere senatore o rappresentante nel congresso nord americano, bisogna essersi fatto conoscere per cariche coperte nei cantoni o negli stati; ed essersi guadagnato una qualche fama di esperto ed onesto amministratore. La classe politica non si forma da sé, ne è creata dal fiat di una elezione generale. Ma si costituisce lentamente dal basso; per scelta fatta da gente che conosce personalmente le persone alle quali delega la amministrazione delle cose locali piccole; e poi via via quelle delle cose nazionali od inter-statali più grosse. La classe politica non si forma tuttavia se l'eletto ad amministrare le cose municipali o provinciali o regionali non è pienamente responsabile per l'opera propria. Se qualcuno ha il potere di dare a lui ordini o di annullare il suo operato, l'eletto non è responsabile e non impara ad amministrare. Impara ad ubbidire, ad intrigare, a raccomandare, a cercare appoggio. Dove non esiste il governo di se stessi e delle cose proprie, in che consiste la democrazia?
Finche esisterà in Italia il prefetto, la deliberazione e l'attuazione non spetteranno al consiglio municipale ed al sindaco, al consiglio provinciale ed al presidente; ma sempre e soltanto al governo centrale, a Roma; o, per parlar più concretamente, al ministro dell'interno. Costui è il vero padrone della vita amministrativa e politica dell'intero stato. Attraverso i suoi organi distaccati, le prefetture, il governo centrale approva o non approva i bilanci comunali e provinciali, ordina l'iscrizione di spese di cui i cittadini farebbero a meno, cancella altre spese, ritarda l'approvazione ed intralcia il funzionamento dei corpi locali. Chi governa localmente di fatto non è né il sindaco né il consiglio comunale o provinciale; ma il segretario municipale o provinciale. Non a caso egli è stato oramai attruppato tra i funzionari statali. Parve un sopruso della dittatura ed era la logica necessaria deduzione del sistema centralistico. Chi, se non un funzionario statale, può interpretare ed eseguire le leggi, i regolamenti, le circolari, i moduli i quali quotidianamente, attraverso le prefetture, arrivano a fasci da Roma per ordinare il modo di governare ogni più piccola faccenda locale? Se talun cittadino si informa del modo di sbrigare una pratica dipendente da una legge nuova, la risposta è: non sono ancora arrivate le istruzioni, non è ancora compilato il regolamento; lo si aspetta di giorno in giorno. A nessuno viene in mente del ministero, l'idea semplice che l'eletto locale ha il diritto e il dovere di interpretare lui la legge, salvo a rispondere dinnanzi agli elettori della interpretazione data? Che cosa fu e che cosa tornerà ad essere l'eletto del popolo in uno stato burocratico accentrato? Non un legislatore, non un amministratore; ma un tale, il cui merito principale e di essere bene introdotto nei capoluoghi di provincia presso prefetti, consiglieri e segretari di prefettura, provveditori agli studi, intendenti di finanza, ed a Roma, presso i ministri, sotto-segretari di stato e, meglio e più, perché di fatto più potenti, presso direttori generali, capi-divisione, segretari, vice-segretari ed uscieri dei ministeri. Il malvezzo di non muovere la " pratica " senza una spinta, una raccomandazione non è recente né ha origine dal fascismo. E' antico ed è proprio del sistema. Come quel ministro francese, guardando l'orologio, diceva: a quest'ora, nella terza classe di tutti i licei di Francia, i professori spiegano la tal pagina di Cicerone; così si può dire di tutti gli ordini di scuole italiane. Pubbliche o private, elementari o medie od universitarie, tutto dipende da Roma: ordinamento, orari, tasse, nomine degli insegnanti, degli impiegati di segreteria, dei portieri e dei bidelli, ammissioni degli studenti, libri di testo, ordine degli esami, materie insegnate. I fascisti concessero per scherno l'autonomia alle università; ma era logico che nel sistema accentrato le università fossero, come subito ridiventarono, una branca ordinaria dell'amministrazione pubblica; ed era logico che prima del 1922 i deputati elevassero querele contro quelle che essi imprudentemente chiamarono le camorre dei professori di università, i quali erano riusciti, in mezzo secolo di sforzi perseveranti e di costumi anti-accentratori a poco a poco originati dal loro spirito di corpo, a togliere ai ministri ogni potere di scegliere e di trasferire gli insegnanti universitari e quindi ogni possibilità ai deputati di raccomandare e promuovere intriganti politici a cattedre. Agli occhi di un deputato uscito dal suffragio universale ed investito di una frazione della sovranità popolare, ogni resistenza di corpi autonomi, di enti locali, di sindaci decisi a far valere la volontà dei loro amministrati appariva camorra, sopruso o privilegio. La tirannia del centro, la onnipotenza del ministero, attraverso ai prefetti, si converte nella tirannia degli eletti al parlamento. Essi sanno di essere i ministri del domani, sanno che chi di loro diventerà ministro dell'interno, disporrà della leva di comando del paese; sanno che nessun presidente del consiglio può rinunciare ad essere ministro dell'interno se non vuol correre il pericolo di vedere "farsi" le elezioni contro di lui dal collega al quale egli abbia avuto la dabbenaggine di abbandonare quel ministero, il quale dispone delle prefetture, delle questure e dei carabinieri; il quale comanda a centinaia di migliaia di funzionari piccoli e grossi, ed attraverso concessioni di sussidi, autorizzazioni di spese, favori di ogni specie adesca e minaccia sindaci, consiglieri, presidenti di opere pie e di enti morali. A volta a volta servo e tiranno dei funzionari che egli ha contribuito a far nominare con le sue raccomandazioni e dalla cui condiscendenza dipende l'esito delle pratiche dei suoi elettori, il deputato diventa un galoppino, il cui tempo più che dai lavori parlamentari è assorbito dalle corse per i ministeri e dallo scrivere lettere di raccomandazione per il sollecito disbrigo delle pratiche dei suoi elettori.
Perciò il delenda Carthago della democrazia liberale è: Via il prefetto! Via con tutti i suoi uffici e le sue dipendenze e le sue ramificazioni! Nulla deve più essere lasciato in piedi di questa macchina centralizzata; nemmeno lo stambugio del portiere. Se lasciamo sopravvivere il portiere, presto accanto a lui sorgerà una fungaia di baracche e di capanne che si trasformeranno nel vecchio aduggiante palazzo del governo. Il prefetto napoleonico se ne deve andare, con le radici, il tronco, i rami e le fronde. Per fortuna, di fatto oggi in Italia l'amministrazione centralizzata è scomparsa. Ha dimostrato di essere il nulla; uno strumento privo di vita propria, del quale il primo avventuriero capitato a buon tiro poteva impadronirsi per manovrarlo a suo piacimento. Non accadrà alcun male, se non ricostruiremo la macchina oramai guasta e marcia. L'unita del paese non è data dai prefetti e dai provveditori agli studi e dagli intendenti di finanza e dai segretari comunali e dalle circolari ed istruzioni ed autorizzazioni romane. L'unita del paese è fatta dagli italiani. Dagli italiani, i quali imparino, a proprie spese, commettendo spropositi, a governarsi da sé. La vera costituente non si ha in una elezione plebiscitaria, a fin di guerra. Così si creano o si ricostituiscono le tirannie, siano esse di dittatori o di comitati di partiti. Chi vuole affidare il paese a qualche altro saltimbanco, lasci sopravvivere la macchina accentrata e faccia da questa e dai comitati eleggere a costituente. Chi vuole che gli italiani governino se stessi, faccia invece subito eleggere i consigli municipali, unico corpo rimasto in vita, almeno come aspirazione profondamente sentita da tutti i cittadini; e dia agli eletti il potere di amministrare liberamente; di far bene e farsi rinnovare il mandato, di far male e farsi lapidare. Non si tema che i malversatori del denaro pubblico non paghino il fio, quando non possano scaricare su altri, sulla autorità tutoria, sul governo la colpa delle proprie malefatte. La classe politica si forma cosi: col provare e riprovare, attraverso a fallimenti ed a successi. Sia che si conservi la provincia; sia che invece la si abolisca, perché ente artificioso, antistorico ed anti-economico e la si costituisca da parte con il distretto o collegio o vicinanza, unita più piccola, raggruppata attorno alla cittadina, al grosso borgo di mercato, dove convengono naturalmente per i loro interessi ed affari gli abitanti dei comuni dei dintorni, e dall'altra con la grande regione storica: Piemonte, Liguria, Lombardia, ecc.; sempre, alla pari del comune, il collegio regione dovranno amministrarsi da se, formarsi i propri governanti elettivi, liberi di gestire le faccende proprie del comune, del collegio e della provincia, liberi di scegliere i propri funzionari e dipendenti, nel modo e con le garanzie che essi medesimi, legislatori sovrani nel loro campo, vorranno stabilire. Si potrà discutere sui compiti da attribuire a questo o quell'altro ente sovrano; ed adopero a bella posta la parola sovranità e non autonomia, ad indicare che non solo nel campo internazionale, con la creazione di vincoli federativi, ma anche nel campo nazionale, con la creazione di corpi locali vivi di vita propria originaria non derivata dall'alto, urge distruggere l'idea funesta della sovranità assoluta dello stato. Non temasi dalla distruzione alcun danno per l'unità nazionale. L'accentramento napoleonico ha fatto le sue prove e queste sono state negative: una burocrazia pronta a ubbidire a ogni padrone, non radicata nel luogo, indifferente alle sorti degli amministrati; un ceto politico oggetto di dispregio, abbassato a cursore di anticamere prefettizie e ministeriali, prono a votare in favore di qualunque governo, se il voto poteva giovare ad accaparrare il favore della burocrazia poliziesca e a premere sulle autorità locali nel giorno delle elezioni generali; una polizia, non collegata, come dovrebbe, esclusivamente con la magistratura inquirente e giudicante e con i carabinieri, ma divenuta strumento di inquisizione politica e di giustizia "economica", ossia arbitraria. L'arbitrio poliziesco erasi affievolito all'inizio del secolo; ma lo strumento era pronto; e, come già con Napoleone, ricominciarono a giungere al dittatore i rapporti quotidiani della polizia sugli atti e sui propositi di ogni cittadino sospetto; e si potranno di nuovo comporre, con quei fogli, se non li hanno bruciati prima, volumi di piccola e di grande storia di interesse appassionante. E quello strumento, pur guasto, e pronto, se non lo faremo diventare mero organo della giustizia per la prevenzione dei reati e la scoperta dei loro autori, a servire nuovi tiranni e nuovi comitati di salute pubblica. Che cosa ha dato all'unità d'Italia quella armatura dello stato di polizia, preesistente, ricordiamolo bene, al 1922? Nulla. Nel momento del pericolo è svanita e sono rimasti i cittadini inermi e soli. Oggi essi si attruppano in bande di amici, di conoscenti, di borghigiani; e li chiamano partigiani. È lo stato il quale si rifà spontaneamente. Lasciamolo riformarsi dal basso, come è sua natura. Riconosciamo che nessun vincolo dura, nessuna unita e salda, se prima gli uomini i quali si conoscono ad uno ad uno non hanno costituito il comune; e di qui, risalendo di grado in grado, sino allo stato. La distruzione della sovrastruttura napoleonica, che gli italiani non hanno amato mai, offre l'occasione unica di ricostruire lo stato partendo dalle unità che tutti conosciamo e amiamo: la famiglia, il comune, la vicinanza e la regione. Cosi possederemo finalmente uno stato vero e vivente...

sabato 31 marzo 2012

Trace letare arte: Renato De' Paoli (nom d'artiste : Re Nato a Sparè

Trace letare arte: Renato De' Paoli (nom d'artiste : Re Nato a Sparè: Renato De' Paoli (nom d'artiste : Re Nato a Sparè) [photos ci-dessus], dirigeant technique de la commune de Vicence, chargé, en tant que re...

lunedì 12 marzo 2012

L'Italia non tutela la minoranza linguistica storica Veneta.

Allora non è vero che la legge è uguale per tutti. Allora non è vero che tutti i cittadini italiani hanno pari dignità sociale senza distinzione di lingua, e la 482/99 ne è l’esempio più immorale e indifendibile.

Carta Europea delle Lingue Regionali e Minoritarie, cosa che in un Paese onesto con sé stesso dovrebbe essere un evento positivo. E invece no. La ratifica, basata sulla famigerata legge 482/99 (Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche), include ovviamente le lingue minoritarie legate a popoli “di confine” o a enclavi dovute ad antiche migrazioni e/o mutamenti geo-politici: albanese (arbereshe), catalano, le varie lingue germaniche, grecanico, sloveno, croato, francese, franco-provenzale e occitano. Ma delle 10 lingue regionali storicamente parlate nei territori italiani e censite dall’UNESCO come in “pericolo d’estinzione” solo tre figurano nella ratifica, ovvero friulano, ladino e sardo. Lo Stato italiano azzittisce così in un solo colpo almeno 7 delle lingue regionali censite dall’UNESCO. Queste sono, in ordine alfabetico: emiliano-romagnolo, ligure, lombardo, napoletano, piemontese, siciliano, veneto. Eppure queste lingue soddisfano ineccepibilmente i criteri della Carta Europea delle Lingue Regionali e Minoritarie, essendo appunto “usate tradizionalmente sul territorio di uno Stato dai cittadini di detto Stato che formano un gruppo numericamente inferiore al resto della popolazione dello Stato” (articolo 1.a.i), essendo in oltre “diverse dalla lingua ufficiale di detto Stato” (articolo 1.a.ii) e, in fine, non essendo “dialetti della lingua ufficiale dello Stato”.

http://www.lindipendenza.com/liberta-di-parola-ecco-la-lista-di-chi-non-ce-lha/

domenica 11 marzo 2012

"Foresti" a casa nostra.

Conoscenza del territorio e integrazione.

Una volta i CC in un paese come Azzano X conoscevano tutti a "VISTA", quando guardavano una ragazza del paese già sapevano chi erano i genitori, a quale parrocchia apparteneva, e se era fidanzata e con chi.

Non si stava tanto in caserma, si stava fuori tra la gente, pochissimo in macchina, si camminava, si entrava in un esercizio commerciale e si ascoltava e così via per tutte le ore di servizio.

Insomma si sapeva tutto di tutti.

Se adesso bisogna portare in caserma perfino una ragazza del posto per identificarla ?

Non c'era nessuno sul posto noto ai CC e degno di fede che potesse riconoscerla?

Questo è un pessimo segnale...

Siamo diventati "foresti" a casa nostra?
commento inviato il 28-09-2011 alle 17:32 da cc in congedo

IL COMUNE DI VENEZIA FA CAUSA AL GOVERNO: «LEGGI SIMILI A QUELLE DEL VEN...

venerdì 24 febbraio 2012

BLODET LANCIA L'ALLARME.TRENTIN RESISTERE SARDI ITALIA NO GRAZIE.

Enzo Trentin a proposito dell'"Arena"

Enzo Trentin 5 Febbraio 2012 at 9:51 am #

Il lettore «el leon de soca » cita il quotidiano veronese «L’Arena», per affermare la sua perplessità su questo mezzo d’informazione. Mi si permetta di ricordare, a questo proposito, un fatto storico documentato.
Un caso vistoso di commistione esplicita fra informazione, propaganda e controspionaggio è stato reso pubblico dalle memorie postume [«Ventotto anni nel Servizio Informazioni Militari (Esercito) Trento Museo trentino del Risorgimento e della lotta per la Libertà -196] del generale Tullio Marchetti, già capo del Servizio Informazioni Militari della I Armata.
«L’Arena», il quotidiano governativo di Verona nato con l’annessione del Veneto all’Italia nel 1866, è fra quelli che maggiormente aumentano tiratura e diffusione negli anni di guerra. Il principale artefice di questa travolgente espansione – l’uomo a cui fanno capo nel 1918 sia i Servizi «I» (Informazioni) che i Servizi «p» (Propaganda) – ne rivela a questo modo gli assai concreti motivi: era un giornale infiltrato e manovrato dai Servizi.
«Mi occorreva un quotidiano che non avesse radici palesi nel mondo militare, come i giornaletti di trincea, che, pur essendo dilettevoli, non potevano avere l’efficacia necessaria, in quanto il soldato li sapeva compilati dai comandi. Perciò esisteva un leggero alito di diffidenza, specie fra gli scettici ed i dubbiosi, e gli sfiduciati, che non mancavano mai.
I grandi giornali, come «il Corriere della Sera» ecc., per quanto animati da buona volontà per seguire le direttive generiche loro impartite in senso politico-patriottico, non potevano mettersi sotto la tutela di un ufficio militare, ed era cosa naturale.
Io, invece, volevo un quotidiano tutto mio, di vecchia data ed ormai diffuso fra la popolazione della mia zona, il quale facesse sue le mie idee, i miei fini, che seguisse senza deviazioni la linea di condotta che gli avrei indicata, in maniera di fare una propaganda vasta, soprattutto insospettata, non solo al fronte, ma anche nella plaga di guerra in mia giurisdizione.
Usciva a Verona il quotidiano del Partito Liberale «L’Arena», di già assai diffuso in provincia, il quale contava 55 anni di vita.
Per una felice combinazione «L’Arena» cambiava di proprietario ed abbisognava di un nuovo direttore. Era in mano di una triade: il sig. Rossi, presidente della Società editrice, il senatore Luigi Dorigo e il deputato Luigi Messedaglia.
Spiegato loro il mio scopo, mi misi subito d’accordo, ed il giornale passò sotto la mia assoluta egida. Il nuovo Direttore fu il capitano Cenzato, il quale fu smobilitato e preso in forza dal Distretto Militare di Verona, rimanendo così libero dal servizio e nello stesso tempo sempre militare. Fu da me autorizzato a vestire in borghese. Il personale della tipografia de «L’Arena» fu tutto militarizzato, con l’accorgimento usato per il Cenzato, ed io ebbi carta bianca in tutto e per tutto.
Ogni giorno il Cenzato si abboccava con me prima che il foglio andasse alla stampa ed io, oltre alle direttive, gli fornivo anche notizie spicciole semibelliche, che interessavano il pubblico e che non potevano essere a conoscenza di altri giornali, perché di sola mia fonte, notiziole che mi affluivano dal fronte, dalle valli, dal mio servizio estero, ma tutte pubblicabili senza che mai ledessero la riservatezza del mio servizio.
Non per sdebitarmi, ma per contraccambiare le facilitazioni fattemi dai proprietari dell’«Arena», li aiutai in tutti i modi a superare le difficoltà materiali che ogni tanto sorgevano, specie nel periodo in cui la carta era contingentata, durante il quale il mio giornale poté avere delle forniture eccezionali di tale indispensabile merce, a prezzo ridotto. Viaggiai due volte in camion col Cenzato per andare a Toscolano sul Garda, alla cartiera Fedrigoni, per portar via d’urgenza la carta per il quotidiano, facendo una pressione verbale un po’ imperativa sul direttore dello stabilimento che nicchiava. Sta il fatto che la carta la ebbe ed in tal modo «L’Arena», non interruppe mai la propria pubblicazione. In contrapposto il giornale veniva ceduto ai comandi alle truppe a prezzo inferiore di quello che era venduto al pubblico, ma la quantità delle copie suppliva alla esiguità del guadagno.
Dalle normali diecimila copie, la tiratura con le forniture militari arrivò alle trentamila.
Il mio ufficio aiutò pure, e di molto, la diffusione de «L’Arena». Il giornale veniva preso alla tipografia a mezzo camions militari e portato in linea, ove giungeva alle truppe più vicine ancora in mattinata ed alle più distanti nel pomeriggio a mezzo uomini di collegamento, teleferiche ecc., cosa che nessun altro giornale poté mai ottenere, nemmeno il «Corriere della Sera».
Si ebbero piccoli episodi di rivalità con altri quotidiani, che si vedevano sacrificati dalle preferenze date a «L’Arena» e ne sorsero lotte, che riuscirono vane, ché il mio giornale godeva di appoggi formidabili (non per nulla eravamo in guerra!).
La propaganda fu fatta in modo assai prudente ed ingegnoso, tale da non destare diffidenza, sia tra l’elemento militare che fra quello civile, e nessuno sospettò mai che il giornale era una emanazione diretta del mio ufficio e specialmente mia.
Perciò veniva letto assiduamente da tutti, senza prevenzioni di sorta e fu molto accetto ai combattenti.»
Commediografo in idioma veneto, giornalista alla «Perseveranza» e alla «Gazzetta di Venezia», Giovanni Cenzato, dopo avere diretto «L’Arena» di Verona dal 1918 al 1922, passerà al «Corriere della Sera» come redattore viaggiante. Non si trattava infatti di un semplice uomo di paglia dei Comandi, ma di un professionista in guerra.
A maggior ragione, dunque, mio caro «el leon de soca» dovremo tenerci caro questo quotidiano.